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Perchè le acciughe non tolgono la sete (e altre leggi dell’impresa che ha liquidità)

I giardinetti della piazza della mia città, che mia nonna chiamava Piazza Genova e che oggi si chiama Piazza Matteotti, erano gremiti di bambini.

Mia nonna, orgogliosamente, portava il suo pargoletto, primo genito della figlia, a far vedere alle amiche.

“Vuoi più bene alla mamma o al papà ?” – mi chiese ex abrupto una signora di una certa età.

Ci sono quelle esperienze traumatiche che ti segnano per tutta la vita e che non riesci a dimenticare, per quanto dettagli apparentemente del tutto irrilevanti nella formazione di un essere umano.

“Su avanti, Valerio!” – mi incitava amorevolmente la nonna – “rispondi alla signora!”

Ricordo la mano della nonna e il mio fare imbronciato, mentre osservavo a testa bassa la punta dei sandaletti osceni sopra calzini bianchi che si usavano per i bimbi a quel tempo.

“E’ timido!” – dedusse con sillogismo aristotelico la signora.

Sbagliava, nella sua deduzione logica.

Non ero timido; mi stavo chiedendo come si potesse essere più imbecilli a porre a un bambino in età prescolare una domanda simile.

Tuttavia, ero al tempo più educato di quanto sia oggi, e restio a dire in faccia alla gente il mio pensiero.

“A tutti e due.” – conclusi con un fil di voce alla fine, esasperato, al termine del terzo grado.

Ricordo che la cogliona si mise a battere le mani in giubilante apprezzamento come se le avessi rivelato la formula della fusione fredda, congratulandosi con mia nonna per la mia sorprendente ed evidentemente -per lei – stupefacente risposta.

Per inciso, so che “a tutti e due” è risposta non grammaticalmente corretta, ma all’epoca non conoscevo il significato della parola entrambi; alla cogliona però andava bene lo stesso.

Una quindicina d’anni dopo, ero nello spogliatoio di una palestra, dove con mio fratello frequentavo da anni un Corso di Kung Fu. Vi era un’intensa discussione tra due ragazzi, e il tema del sentito simposio era:

Ma è più forte il kung fu o il karatè?

Partecipavano con una certa passione al dibattito quasi tutti gli astanti, me e mio fratello esclusi, non senza una qualche rudimentale capacità oratoria e sofistica da parte di taluno. Alla fine, non riuscendo a dirimere la questione, il sostenitore della teoria del Kung Fu si rivolse, con tono speranzoso, a una cintura nera di terzo grado, combattente di Sanda (la versione da combattimento del Kung Fu), che per pura casualità transitava in quell’istante nello spogliatoio.

Era per noi paria un onore ricevere addirittura la visita di una cintura nera di alto grado nello spogliatoio degli allievi, giacché era regola tradizionale della scuola che le cinture nere mostrassero le loro pudenda solo con pari grado, in altra stanza.

Si formò immediatamente un assembramento di ragazzi in mutande attorno al nero cinturato, ansiosi di pendere dal suo verbo per ascoltare una dirimente e conclusiva rivelazione.

“Allora – insistette speranzoso il ragazzo – è più forte un praticante di kung fu o di karatè?”

Ricorderò sempre il disegno di delusione che si dipinse sul volto dei praticanti, maggiore della delusione del bimbo che venga a scoprire l’inesistenza di babbo natale, allorché il loro divo rispose:

“Tanto, un truzzo albanese abituato a prendersi a botte tutti i giorni gonfia entrambi come una zampogna.”

Ed uscì, dopo la rivelazione, dal dotto simposio con un rotolo di carta igienica in mano.

Se devo, a distanza di tanti anni, ricordare episodi fondanti della mia formazione, non posso trascurare i due citati momenti topici.

Sicché, quando oggi, in età adulta, assisto a dibattiti sul novello bar virtuale (Facebook) in merito al fatto che sia più utile la vendita o la contabilità, rinviene in me lo stesso senso di attonito stupore che mi colse allorché ascoltai quei due primitivi ragionamenti, con le braghette corte prima, e in mutande più tardi.

Nemmeno, conforta il mio animo afflitto il leggere l’intervento dell’adulto di turno, il quale comunica chiosando: “entrambi, perché queste sono le due prime basi che deve avere l’imprenditore”.

Voglio bene alla mamma, e al papà.

 

I 2 ostacoli alla deduzione corretta del fenomeno scientifico

Senza alcuna pretesa di scientificità, ma con lo spirito disincantato di chi sotto l’ombrellone è costretto ad imbattersi in scempiaggini spacciate su Facebook per verità, ci sono un paio di critiche che vorrei fare a tale modo di ragionare, perché avulse dal metodo scientifico. Il metodo scientifico cerca – quanto meno, ci prova – di trovare la verità, e comunicarla in modo obiettivo.

I due principali ostacoli a tale nobile scopo sono:

 

  1. La parzialità ideologica dell’osservatore

  2. La parzialità di angolo di visione dell’osservatore

 

Oddio, ci sarebbe anche una terza spiegazione possibile, e cioè la coglioneria dell’osservatore, ma tralasciando il già citato prof. Cipolla, cui l’Università dove insegno quest’anno ha giustamente dedicato un’aula della sede centrale, supponiamo come ipotesi forte del ragionamento che l’osservatore sia sempre intelligente e – come ama ripetermi sempre il mio amico commercialista di Genova – “lasciam correre il pesce”.

Orbene, se l’osservatore è persona intelligente – ipotesi forte del mio ragionamento – allora le due possibilità principali per le quali potrebbe giungere ad affermazioni palesemente contrarie al vero sono la sua parzialità ideologica oppure quella del suo ambito di osservazione.

Ma, prima di parlare di questi due ambiti di errore, si dovrà spiegare il titolo di questo articolo.

Infatti, poiché il mio scopo è dimostrare che l’impresa è oggetto complesso e che affermazioni peregrine possono condurre, se errate nelle fondamenta, a conclusioni fuorvianti per l’imprenditore, dovrei parlare di cassa, di punto di indebitamento ottimale e sostenibile, di derivate e punti di ottimo, qualora volessi fare un discorso serioso.

E’ cosa che faccio solo per i consulenti in cerca di specializzazione che vengono al mio Corso annuale, Master Bank, finalizzato a creare finanzialisti, cioè aziendalisti specializzati in finanziamenti d’impresa.

Dato però che qui invece voglio farmi capire da tutti, compresi gli appassionati fanatici di corsi motivazionali e di PNL, amanti della metafora come – a loro parere – infallibile metodo didattico, userò allora come metodo di ragionamento una primigenia forma metaforica, e cioè il sillogismo.

Prima di dedurre l’illogicità di certi ragionamenti, si dovrà quindi spiegare del perché le acciughe non tolgano la sete.

 

I 2 casi d’errore nel sillogismo (per tacer del terzo)

Come noto anche ai sassi e ai seguaci della PNL, il sillogismo è un metodo di ragionamento inventato – dicitur – da un signore dell’antica Grecia che di mestiere poteva permettersi il lusso di fare il filosofo, il quale, condizionando il pensiero millenario del razionalismo occidentale, ci ha insegnato, sin dalle scuole medie, che esiste una premessa maggiore, una premessa minore e una conseguenza necessaria.

Senonché, consci del potere persuasivo di tale ragionamento, molte persone capaci di parlare in pubblico, usano volutamente questo metodo per ottenere – a propri fini – facili consensi in menti ottenebrate. Questi sono quelli che inserisco nel quadrante della “parzialità ideologica dell’osservatore”.

Dall’altro lato, inconsci del potere persuasivo di tale ragionamento, molte altre persone usano il sillogismo giungendo a conclusioni erronee, parimenti ottenendo consenso dalle menti ottenebrate, semplicemente perché partono da un punto di osservazione limitante. Questi secondi sono quelli che inserisco nel quadrante della “parzialità dell’angolo di visione dell’osservatore”.

Come detto, ci sarebbe poi anche un terzo caso – invero frequente più di quanto il lettore supponga – e cioè quello in cui a insegnare siano dei perfetti imbecilli, ma abbiamo detto che escludiamo tale ipotesi forte dal nostro modello, e per questo ci atterremo alle nostre stesse regole.

Ebbene, in ambo i casi – per tacer del terzo – l’errore consiste prioritariamente nella premessa maggiore, la quale, trascinandosi nella premessa minore, conduce a un’errata conseguenza necessaria.

Tuttavia, esiste una profonda differenza d’errore, consapevole o meno, tra i due casi codificati (per tacer del terzo. Nel primo, l’errore è voluto, nel secondo, l’errore è inconsapevole.

Nel primo caso, dato che la premessa minore è tendenzialmente sempre veritiera e corretta, l’ascoltatore o il lettore è tratto in inganno, giungendo, come fa il suo persuasore, a una conseguenza necessaria errata.

Si tratta di tecnica nota da tempo, che ho visto applicare in tantissimi ambiti nei quali ho vissuto, come quelli della politica o della pubblica amministrazione, per esempio. In Parlamento, ho ascoltato non pochi relatori strappare applausi a scena aperta partendo da premesse maggiori infondate, semplicemente perché quelle minori erano uniformemente riconosciute come valide. Analoghi risultati ho visto ottenere da Sindaci di città, i quali rivendicavano risultati in qualsiasi materia, dall’ambiente alla circolazione del traffico, con analogo furbesco espediente.

Taluni trascorsi Presidenti del Consiglio italiano, poi, sono stati vere stelle in questo campo, tracciando solchi indelebili nella storia della seconda Repubblica, partendo dalla citazione di percentuali sballate, perché riferite a diversi contesti, giungendo, per via di inoppugnabili altre percentuali, a indiscutibili errate conclusioni, tra il tripudio dei votanti.

Il paradosso dell’acciuga

Non credo di aver mai detto ai miei allievi ai Corsi di formazione la mia teoria del paradosso dell’acciuga. Orbene, lo farò qui per la prima volta; leggiamo insieme questo mio inedito sillogismo.

 

Premessa maggiore —> Le acciughe fanno bere

Premessa minore —> Bere toglie la sete

Conseguenza necessaria —> Le acciughe tolgono la sete

 

Certo, è un apparentemente sillogismo, quindi uno strumento di logica, da tempi millenari. Tuttavia, perfino i sassi e gli ottenebrati dei corsi motivazionali comprenderebbero al volo che in un deserto una bella spremuta d’acciughe non costituirebbe un toccasana.

Potrà apparire incredibile al lettore normale, ma esistono invece ambiti nei quali ragionamenti del tutto illogici trovano entusiastico e fideistico applauso.

Vediamone uno tra i molti, a titolo di esempio.

 

Premessa maggiore —> Le vendite disequilibrate fanno chiedere denaro

Premessa minore —> La banca apporta liquidità

Conseguenza necessaria —> Le vendite disequilibrate creano liquidità

 

Tantissime persone tuttavia penserebbero, qualora il guru del marketing di turno lo affermasse, che questo sillogismo sia del tutto logico, come bere una bella spremuta d’acciughe nel deserto.

Per quanto al lettore non avvezzo a tali mondi possa sembrare grottesco, funziona esattamente così.

Ora, esaminiamo entrambi i sillogismi, per scoprire il medesimo meccanismo. E’ vero che bere tolga la sete, esattamente come è vero che la banca apporti liquidità. In tal caso, il sillogismo funzionerebbe in ambo i casi.

Dove sta l’errore?

Nel fatto che la connessione tra la premessa maggiore e quella minore non sia universalmente valida; non è automatico che si possa bere, dopo una bella spremuta d’acciughe, come non è affatto detto che la banca ci finanzi, qualora le vendite squilibrate abbiano drenato la nostra liquidità.

In entrambi i casi, il sillogismo trae in errore la mente ottenebrata; nel primo perché non è detto che il distributore d’acqua sia a disposizione nel deserto, nel secondo perché non è detto che la banca sia lì per dare liquidità dopo i nostri errori.

In entrambi i casi, tuttavia, l’errore è in premessa maggiore; le acciughe sotto sale, come le vendite disequilibrate, non sono qualcosa che crea, ma che drena la liquidità, di un corpo umano o di un’azienda.

Ergo, tutte le persone di sana capacità di ragionamento si saranno convinte del fatto che le acciughe salate non tolgano la sete, esattamente come le vendite non equilibrate non creino liquidità aziendale.

I sassi, non saranno ancora convinti.

 

I corpi complessi

Le aziende, come le persone – essendo fatte di persone – sono corpi complessi.

Dare spiegazioni banali a fenomeni complessi conduce non di rado in errore. Per esempio, io potrei dire che in un’azienda è importante prioritariamente vendere, se fossi un docente di vendita, oppure conosco amici docenti di supply chain che direbbero – all’opposto – che sia importante saper prioritariamente acquistare.

Ma conosco esperti di organizzazione aziendale che direbbero che è importante saper organizzare l’azienda, e una signora, una volta, mi criticò nello studio di un commercialista chiedendo: ma come si fa a partire in un business plan senza partire dalla struttura organizzativa?
Strano a dirsi, ma ci siete arrivati tutti (tranne i sassi): la signora era consulente di organizzazione aziendale.

E quando ero nel consiglio di amministrazione all’Università del Piemonte Orientale, notavo con ilare curiosità come i rappresentanti degli associati fossero sistematicamente a favore dei loro colleghi; nondimeno facevano i rappresentanti del personale amministrativo.

Sto cercando di farvi cogliere la parzialità ideologica dell’osservatore; tutti siamo portati a enfatizzare ciò che facciamo noi, e per converso a derubricare a fatto di secondaria importanza ciò che fanno gli altri. Se questo approccio è fatto per servilismo nei confronti del padrone di turno (il datore di lavoro, di consulenze, il mandarino universitario o il politico che ci procura prebende), o se invece perché siamo noi stessi a voler ingannare il prossimo (per esempio perché vogliamo vendere il nostro corso di formazione), è ai miei occhi indifferente; colloco tale approccio nel quadrante della parzialità ideologica, perché comunque mentiamo sapendo di mentire.

Al contrario, ci sono persone che in buona fede idolatrano ciò che fanno, per la sola ragione che non hanno mai fatto altro.

Il mio amico esperto di supply chain dirà che è fondamentale controllare la catena degli acquisti, mentre il direttore del personale spiegherà su Linkedin – come nel dibattito cui ho assistito una volta – che senza la giusta scelta di personale nessuna azienda funziona.

Orbene, vi dirò come stanno le cose, quando si parla di competenze indispensabili all’imprenditore.

Sbagliano tutti, a indicare quale sia la cosa più importante (che guarda caso è sempre quella che interessa direttamente o indirettamente a loro), o perché mentono (parzialità ideologica), o perché in buona fede non conoscono altro che la propria materia (parzialità di punto di osservazione).

Eh, ma da qualche parte bisognerà pur cominciare! – dirà qualcuno (casualmente indicando le propria).

Esatto.

Cominciamo allora a dire le cose come stanno.

Le cose come stanno

Anche qui, il discorso sarebbe estremamente più complesso, ma tentiamo di semplificare, mantenendo un minimo di scientificità ed obiettività.

Lezione numero uno di economia aziendale, che mi fece un bravissimo professore ai tempi delle guerre puniche; prima che qualche fenomeno lo contesti, ricorderò che quella scienza è sostanzialmente inalterata dai tempi di Gino Zappa, ai primi del novecento.

Un’azienda è una scatola fatta di due processi essenziali e un terzo che li collega.

Attenzione: acquisto dei fattori produttivi significa molte cose. I tre fattori essenziali, noti agli economisti sin dal diciottesimo secolo, sono il capitale, i beni e il lavoro. Ma tali settori sono oggi complessi, poiché significa parlare di gestione degli acquisti, selezione e gestione del personale, organizzazione dello stesso, pianificazione della produzione e sua organizzazione, e molte altre attività.

I docenti e consulenti dell’una o dell’altra vi direbbero che, senza la loro, l’imprenditore morirebbe; e non è vero (ma non fatemi fare il sillogismo).

Parimenti, la vendita dei prodotti e servizi significa una molteplicità di materie, quali a titolo d’esempio la vendita, il marketing, le ricerche di mercato (le tre cose precedenti non sono sinonimi), ma anche la comunicazione all’esterno e, in alcune aziende, la gestione dei rapporti con il pubblico, e via discorrendo.

I docenti e consulenti dell’una o dell’altra vi direbbero che, senza la propria, l’imprenditore sarebbe morto prima di cominciare; non è parimenti vero, e vi risparmierò il sillogismo errato.

Infine, ci sono quelli come me, che si occupano di finanza.

Molti di noi osservano, in dottrina e prassi professionale, una cosa vera, e cioè che senza la gestione della cassa in uscita del primo quadrante e della cassa in entrata del secondo, l’impresa salta.

Dirò di più; il fine di un imprenditore è in questo terzo quadrante, poiché alla fine del gioco conta solo una cosa, e cioè quanti soldi vi restano in tasca.

Se non concordate con tale affermazione, ditemi allora se fate l’imprenditore per produrre e vendere, o per guadagnare.

Sono solito semplificare questo concetto ricordando agli amici commercialisti miei allievi del mio Corso di specializzazione annuale Master Bank – che quando arrivano sono fermi alla logica dei costi e dei ricavi (altro modo di leggere i due quadranti) – quanto segue:

 

I bilanci si fanno per competenza;

i fallimenti per cassa.

 

Tuttavia, io non mi sognerei mai di affermare che senza le mie competenze l’imprenditore sarebbe morto e che deve partire dallo studio delle mie materie.

Non lo farei, come osservatore di un fenomeno complesso, per una semplice ragione.

Perché come osservatore ho eliminato dall’ipotesi forte del mio ragionamento – lo ricordate? – la possibilità che l’osservatore sia un imbecille.

La logica dell’imbecille

Non sono ideologicamente parziale, cioè non mento sapendo di mentire; infatti non affermo – come non sto affermando – che la finanza d’azienda sia tutto, o la cosa principale che un imprenditore deve conoscere, o la competenza primaria in un’impresa.

Non ho nemmeno un punto di vista d’osservazione parziale, cioè non erro per punto di visione di parte.

Infatti, oggi sono uno specialista dei finanziamenti d’azienda, ma in gioventù mi sono occupato di ricerche di mercato, più avanti ho costruito piani marketing (e quindi dovrei dire in modo enfatico del secondo quadrante), ma ci sono state aziende pubbliche nelle quali ho seguito la comunicazione, altre nelle quali ho dovuto gestire le pubbliche relazioni e altre ancore per le quali ho dovuto gestire invece la selezione del personale e altre nelle quali l’organizzazione del personale stesso (e quindi dovrei dire con fanatismo ideologico che quelle del primo quadrante sono le cose essenziali).

Ma il punto dirimente è un altro.

Come può chi, nella migliore delle ipotesi, è stato solo un tecnico o manager del proprio settore – quindi chi ha esperienza settoriale – pretendere di insegnare a un imprenditore come fare impresa?

A me è toccato l’onere e il privilegio di gestire aziende private e pubbliche, a livello di Presidenza o amministratore delegato. E chiunque abbia visto l’azienda in quell’ottica non può che – imprenditori, almeno voi dovete darmene atto – ragionare in modo completamente differente.

Quindi, lasciate all’imbecille il piacere di esternare la propria imbecillità, enfatizzando una logica parziale e semplificata in una visione di un corpo, quello dell’azienda, che è invece globale e complesso.

 

Il panorama e il buco della serratura

L’azienda è quindi un corpo complesso, nel quale quelle differenze qui appena accennate divengono, se si scende appena nel dettaglio, infinitamente poliedriche.

Ho visto aziende operanti nel settore delle energie rinnovabili per le quali era essenziale la parte di costruzione e impiantistica iniziale, aziende operanti nella finanza per le quali era fondamentale la scelta del processo, aziende operanti nel settore degli appalti pubblici per le quali le conoscenze legali erano fattore dirimente d’accesso.

Tuttavia, un’azienda è – mutatis mutandis – un delicato corpus di equilibri, reddituali, patrimoniali e finanziari, ma prima ancora un insieme organizzato di attività che, dando vita ad un sistema, fa ammalare una parte se un’altra non funziona. Così, io non mi sognerei mai di dire che la vendita non serva, semplicemente perché non è vero; se non ci fosse la vendita, non ci sarebbero soldi da gestire.

Parimenti, non mi sognerei mai di denigrare il valore dell’organizzazione dei fattori di produzione, semplicemente perché non è vero; se non ci fosse una adeguata organizzazione degli acquisti, gestione e produzione dei fattori di capitale, mezzi e persone, non ci sarebbe nulla da vendere.

Infine, come questi due mondi non sono la totalità dell’impresa, parimenti affermo che senza il terzo, e cioè la gestione della cassa, quei due mondi, in qualsiasi impresa del mondo, porterebbero l’impresa in fallimento.

Esistono dimostrazioni matematiche ben più solide della storia delle acciughe, per spiegare come mai sia perfettamente possibile una crisi finanziaria anche per aziende che vendono, e anzi siano innumerevoli le spiegazioni possibili di aziende che più vendono, più vanno in crisi.

Alcuni casi di mie esperienze professionali sono spiegati in questo blog.

La stessa cosa può succedere dal lato dei costi, dell’organizzazione dei fattori e via discorrendo.

Insomma, le aziende sono macchine complesse, come il corpo umano.

Un imprenditore che pensi sia possibile apprendere come fare impresa da chi ha una visione di parte (parzialità ideologica) oppure limitata (parzialità per ottica di osservazione) commette un errore fatale, come credere a un falso sillogismo.

Gli imprenditori, quelli veri, non quelli del “forfettino”, quelli delle aziende strutturate, sanno benissimo che gestire un’azienda non richiede una specializzazione, ma una visione d’insieme, organica, poliedrica, perché l’imprenditore deve sapere un po’ di tutto e saper scegliere – semmai – specialisti nei vari settori. L’imprenditore non partecipa ai corsi di formazione per diventare uno specialista, ma per capire di quella materia, diventare autonomo e saper scegliere – semmai – gli specialisti.

Questa è la mia esperienza, non sui libri, ma per aver vissuto esperienza diretta di responsabilità di vertice di aziende, nonché per aver vissuto con imprenditori che, partiti dalle aziende individuali, si erano trovati dopo decenni e generazioni a gestire multinazionali.

Ma ciò che insegnavano i padri imprenditori ai figli – almeno questo i figli a me hanno insegnato – è che guidare un’impresa significa avere una visione ampia, e non ristretta.

Solo un’altra esperienza mi ha confermato quella visione, ed è la vita politica ad alti livelli, nei quali la specializzazione è sostituita dalla capacità di dotarsi di specialisti.

Lo specialista non è mai un docente d’impresa, perché può portare solo una visione settoriale.

Sarebbe come pretendere di far vedere il panorama guardando dal buco di una serratura.

Conclusione

In questo articolo, ho cercato di riportare il piano di discussione su un minimo di obiettività ed imparzialità. E’ palese che il mio interesse, per il mestiere che faccio ampiamente pubblicizzato in questo blog, sia quello di condurre ai miei corsi persone interessate alla specializzazione nel finanziamento delle imprese, a diversi livelli, di visione d’insieme per gli imprenditori e di visione specialistica per i consulenti.

Tuttavia, io credo che, se appena si esce dalle leggi vetuste del copy e della vendita a menti ottenebrate dai fumi delle frasi esaltanti dei corsi motivazionali, supportate dalle musiche opportune e dalle tecniche di rito di ancoraggio della spalla della PNL, e se cioè si intende parlare a imprenditori e consulenti veri, li si debba apostrofare con il rispetto dovuto per ciò che sono; esseri senzienti.

Gli esseri senzienti sentono se un discorso come questo è vero, autentico, oppure finto.

Un commercialista che dica, per esempio, che un imprenditore debba comprendere prima di tutto di contabilità sta mettendo una premessa maggiore erronea, perché non è universale, in quanto la contabilità, come noto a qualsiasi esperto, consente solo una visione ex post, e non ex ante, della gestione d’impresa.

Nessun imprenditore serio sarebbe affascinato da tale discorso, che non contempla alcune parole fondamentali per qualsiasi azienda minimamente strutturata, come pianificazione finanziaria, controllo di gestione o pianificazione strategica, cioè tecniche che guardano al futuro, e non al passato, alla registrazione contabile di ciò che ormai è avvenuto.

Un consulente che parimenti dogmaticamente affermi, nel mio settore, che un imprenditore debba prima di tutto capire come andare in banca, magari perché lui è un mediatore del credito, sta mettendo altra premessa maggiore erronea, perché non universale, in quanto la banca non risolve tutti i problemi aziendali, ed anzi in molti casi è controproducente acquisire altro debito.

In conclusione, il messaggio di questo articolo è uno ed uno solo; l’impresa è una macchina complessa, in continuo movimento, nella quale la guida corretta è data dalla capacità di aver sotto controllo tutte le parti del mezzo, sapendo interpretare come parimenti importanti diverse e differenti funzionalità, e sapendo intervenire, all’accendersi di qualche spia, con tempestività, se del caso ricorrendo all’aiuto dello specialista.

Tutti coloro che, invece, dipingono l’azienda come qualcosa di gestibile acquisendo, peraltro in pochissimo tempo, competenze universali, atte magicamente a dipanare qualsivoglia problema, magari con approccio unilaterale, cioè enfatizzando il ruolo prioritario di questa o quella indispensabile conoscenza, semplicemente stanno raccontando un sillogismo che non esiste, o perché vi stanno mentendo a loro fini, o perché pensano davvero di aver ragione a dire che le acciughe tolgano la sete.

Dato che abbiamo escluso per tali divulgatori di verità la terza ipotesi – ma dato che nemmeno voi siete stupidi – lasciate che restino solo i sassi a crederlo.

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