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A cosa serve realmente il Business Plan

Ero sceso incuriosito dalla scala a corda, appesa al vecchio mandorlo, sul quale avevo costruito la mia casetta di legno e corde.

Mi ero avvicinato a mio padre, seduto al tavolo sotto il più grande degli altri due mandorli del giardino, tra i quali era appesa l’amaca. Stava all’ombra, scrivendo a matita su un grosso block notes.

“E che cosa vuol dire business plan”? – avevo chiesto.

Per tutta risposta, mio padre aveva preso il righello e aveva iniziato a segmentare a matita il foglio a quadretti del grosso block notes. Poi, aveva cominciato a spiegarmi il significato della lettera Q (quantità), della lettera P (prezzo), e delle colonne P*Q.

Infine, aveva cominciato a comporre un puzzle fatto di ipotesi di nomi di prodotti, prezzi di vendita, costi di vendita e margini ipotetici, con i soli strumenti di una gomma e una matita (e i conti fatti a mente).

Io osservavo un po’ annoiato quel lavoro – che mi suonava più inutile delle traduzioni di greco e latino – seduto sulla sedia in plastica bianca attorno al tavolo rotondo sotto le piante.

“E a cosa ti serve?” – chiesi dopo un po’, osservando quel mosaico a me incomprensibile di informazioni.

Mio padre prese una gomma e cominciò a cancellare alcuni numeri, prima di rispondermi, senza sollevare lo sguardo dal foglio di lavoro.

 

L’Italcofani

Molti anni dopo, nel 1996, dopo una laurea in Economia e cinque anni di vita politica, di cui gli ultimi trascorsi a Roma in Parlamento, avevo deciso di fare il consulente nell’area della finanza agevolata, dopo aver sentito il parere di amici professori di Università, che mi consigliavano di mettere a frutto quanto appreso in Commissione Politiche Comunitarie.

Il mondo stava cambiando, e prometteva entro pochi anni di condurci tutti in un meraviglioso mercato unico dominato da una sola moneta, detta Euro. All’epoca, si parlava però ancora solo di ECU.

Mi mancava, per poter operare professionalmente, una specializzazione. Decisi di frequentare un Master Privato, che aveva una parte centrale dedicata al business planning.

Ricordo ancora (e ho ancora da qualche parte in studio le fotocopie) il caso Italcofani, cioè un’azienda italiana che operava (sic!) nel mercato della produzione di casse da morto.

Quale fosse stata l’origine della brillante idea che avevano avuto gli organizzatori di tirarci così su il morale non mi è dato saperlo; sta di fatto che usavamo i nostri personal computer, sui quali giravano i primi excel. Io avevo studiato in Università sul vecchissimo Lotus, di cui Excel mi pareva solo una evoluzione più moderna.

La cosa strana fu la mia impressione a fine Corso.

Se toglievo il tecnicismo dell’informatica, delle fotocopie e dei nomi inglesi, il business plan su foglio elettronico era molto simile – rectius, identico – a quello costruito da mio papà sotto il mandorlo, con un foglio di carta.

I libri sul Business Plan

Da allora, ho comperato praticamente tutti i libri sul business plan, spesso integrati da software. Ogni anno, le principali case editrici nel settore dell’economia offrono versioni aggiornate. Molti, sono delle schifezze.

La cosa ridicola è che vengono scritti da persone esperte di marketing, od organizzazione aziendale.

Peccato che il business plan, alla fine, debba invece rispettare requisiti di natura finanziaria. Quella parte, deve per forza essere scritta in modo libero, almeno per una parte. Gli schemi fissi vanno bene nella parte finale, ma non in quella iniziale, per una semplice ragione.

 

Non ho mai visto due aziende uguali

Le aziende, anche dello stesso settore, hanno caratteristiche diverse, budget diversi, regole diverse. Quindi schemi fissi, non modificabili, perché bloccati da un software, sono spesso ridicolmente inutili.

Di qui, ho trascorso anni a studiare i software in commercio per poi produrmi diversi modelli che andassero bene alla mia attività di consulente, per il quale la principale caratteristica deve essere una e solo una:

 

La flessibilità

Se lo strumento è rigido, e peggio ancora se è un software chiuso, cioè del quale l’utilizzatore non conosca le formule, esiste un rischio altissimo.

Mi capitò una volta di vederne l’effetto in una riunione, quando ero consulente finanziario di un Ente locale. In una riunione alla presenza del Sindaco e del capo area di una nota banca italiana, il commercialista di una società partecipata stava presentando il business plan, scritto con un programma in commercio.

Ad un certo punto, il bancario pose una domanda tecnica, circa un certo dato di cash flow.

“Dottore, come lo ha calcolato?” – chiese al commercialista.

Questi, in evidente stato confusionale, prima spiaccicò qualche stupidaggine, quindi ammise che il numero era stato calcolato dal sofwtare, preso da un libro in commercio, ma non sapeva spiegarne la formula di calcolo.

“Capisco.” – fu la laconica risposta del futuro finanziatore.

L’azienda – guarda il caso – non venne finanziata.

 

La tecnica dell’aborto

La maggior parte degli imprenditori ragiona ancora come quegli amministratori, i quali si erano limitati a chiedere (lo venni a sapere dopo) al commercialista:

“Dottore, mi butta giù due numeri di business plan? Lo chiede la banca.”

Questa metodologia, ampiamente attuata, con varie sfumature e dettagli, risponde a quella che io chiamo:

 

LA TECNICA DELL’ABORTO

Un business plan scritto dal commercialista a tavolino è chiaramente funzionale all’aborto del progetto. Eppure, le maggiori case editrici continuano a fare presentazioni di libri, rivolti ai liberi professionisti, in cui promettono di metterli in grado, con casi pratici svolti, di copiarli per fare qualsivoglia business plan per i propri clienti.

Un aborto annunciato; il business plan lo deve scrivere, in primis, l’imprenditore.

Il consulente, che non deve essere un tuttologo generalista, ma uno specialista, può perfezionarlo in alcune parti tecniche.

Ma le basi, universali, sono quelle del mandorlo vicino all’amaca.

Quelle basi vanno conosciute da entrambi: imprenditore e specialista.

 

Internazionalizzazione d’impresa

Negli ultimi anni, le banche sono particolarmente sensibili alle aziende italiane che esportano. Questo la dice lunga sulla fiducia del sistema finanziario in merito al nostro Paese, ma questo è altro argomento, trattato in altri articoli del blog.

Agli imprenditori che mi leggono, e che si rivolgono speranzosi al commercialista generalista che gli ha fatto la dichiarazione dei redditi o comperano il libro della famosa casa editrice che promette loro di imparare a fare il business plan per portare la propria azienda sui mercati esteri, propongo di chiedere al consulente o allo scrittore di turno una sola domanda:

 

Ma tu, quante aziende che volevano andare all’estero

hai fatto finanziare?

Sentirete non di rado rumore di unghie sui vetri.

Nel caso di internazionalizzazione d’impresa, il business plan diventa uno strumento indispensabile, non da improvvisati.

Ma la gente parla a vanvera, di internazionalizzazione, come di business plan.

Che cosa significa internazionalizzazione?

 

Cosa vuol dire internazionalizzazione?

Intanto, occorre intendersi sui termini.

Per esempio, la maggior parte degli operatori finanziari considera internazionale per un’azienda italiana tutto ciò che è al di fuori dell’Unione Europea. Quindi, se volete andare in Francia o Germania, spiacenti, ma non è internazionalizzazione, in quanto è mercato interno.

Secondariamente, l’internazionalizzazione è per la mia esperienza vista dall’operatore finanziario in quattro ben distinte fasi.

Costruisco qui una tavola di sintesi, in tabella 1.

Tabella 1

Vediamo, ora, sinteticamente, le quattro fasi.

 

FASE I – STUDIO DEI MERCATI ESTERI

La prima fase, molto frequente in Italia, è collegata al mito del piccolo e medio imprenditore che gira per le fiere estere con la valigetta, studiando i mercati.

Può essere una fase molto costosa e non breve, specie per una piccola impresa che si affaccia per la prima volta su nuovi e lontani mercati.

Per la mia esperienza romana e diretta, gli aiuti degli organi associativi, degli enti pubblici regionali e nazionali italiani sono, semplicemente, risibili.

Quindi, l’imprenditore italiano, al di là di quattro leggi agevolate di dubbia utilità, si trova spesso a sostenere costi correlate a strade individuali, talora prive di reale ritorno economico.

 

FASE II – PENETRAZIONE COMMERCIALE

Per penetrazione commerciale invece si intende una fase decisamente più avanzata. Le norme italiane di riferimento richiedono due elementi essenziali, perché si possa parlare di penetrazione commerciale:

  1. Una sede estera fisica (show room, uffici, magazzini, ecc.)
  2. Personale ubicato in tale sede estera

Ora, per la mia esperienza diretta, scrivere un business plan per lo studio del mercato brasiliano di azienda esportatrice di generi alimentari made in Italy è una cosa, scriverne uno per la penetrazione commerciale con creazione di show room per un’azienda orafa di Valenza sulla quinta strada a New York un altro, e scriverne uno per la creazione di sei punti vendita in Croazia per la commercializzazione di una nota marca di jeans italiana una terza ancora.

Ma il primo caso e i due seguenti non hanno nulla a che spartire, come pure non c’è correlazione tra il primo e i casi di apertura di punti di rappresentanza commerciale nell’est europeo o a Dubai (solo per citare alcuni altri casi di mia esperienza professionale).

Il business plan della fase II sarà diverso dal primo modello.

 

FASE III – DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA

La terza fase è un salto di livello epocale, rispetto alle prime due.

Qui si parla solitamente di costituzione di Join Venture, ma in alcuni paesi, come ad esempio la Cina, non di rado si è proceduto a modelli di società a totale partecipazione italiana.

Qui sono tre i requisiti indispensabili:

  1. Stabile struttura fisica nel Paese
  2. Personale dedicato in loco
  3. Stabile struttura produttiva in loco

Di più; esistono molti modelli diversi.

Seguire un’azienda italiana che vuole andare a produrre in Est Europeo nel “bianco” (lavatrici, ecc.) non è la stessa cosa che seguirne una che vuole andare in una zona industriale cinese a produrre elettrovalvole.

Cambiano le regole, le norme, il mercato, la legislazione fiscale, le agevolazioni pubbliche, i tempi, la burocrazia, i modelli di business e molte altre cose.

Il business plan per questa fase è molto più complesso, richiedendo una valutazione di ritorno finanziario degli investimenti che solo gli specialisti (io li formo al corso specialistico annuale Master Bank) sanno fare.

Andare dal commercialista sotto casa e pretendere che “butti giù due numeri per la banca” non è una cosa foriera di salute.

Non per la banca; per sé.

 

FASE IV – DELOCALIZZAZIONE FINANZIARIA

La quarta e ultima fase è la delocalizzazione finanziaria.

Poiché questa fase è appannaggio del mercato delle grandi imprese, già solitamente multinazionali, non è il target di questo blog e per tale motivo non ne tratterò in questo articolo.

Uno, nessuno, centomila

Ma allora, esiste il libro per fare il business plan?

E quanti modelli ci sono, considerando i settori, gli ambiti, l’internazionalizzazione o meno dell’azienda?

La risposta è che non esiste il modello universale di business plan, perché ogni azienda è diversa dall’altra, e modelli adatti a un’azienda che opera con appalti internazionale non sarà adatto a quello di un’azienda nel settore turistico in sud Italia.

Tuttavia, ci sono regole universali.

Queste regole vogliono che il business plan abbia una struttura tipo, che io ho codificato in una decina di capitoli, di cui 5 per la parte descrittiva e 5 per la parte quantitativa.

Chi deve scrivere quei 10 capitoli?

Esiste una sola risposta valida, per chi capisce di finanza:

 

L’imprenditore.

 

E il consulente?

Il consulente, qualora questi non conosca queste regole, dovrà guidarlo nella stesura dei 10 capitoli.

Il consulente potrà completare il piano riassumendolo in 3 documenti finali, quantitativi:

  1. income statement;
  2. balance sheet;
  3. cash flows statement.

Questo non è lavoro per un consulente generalista, ma per uno specialista: io formo i finanzialisti, cioè aziendalisti specializzati in questo lavoro nel corso di specializzazione annuale Master Bank.

 

L’imprenditore e il suo quaderno

Ho visto imprenditori veri scrivere il proprio piano su carta per la cementeria in Ucraina, per l’azienda nel settore componenti per auto in Brasile, per la macchine da stampa in Cina (solo per citare alcuni casi che ho seguito).

Ma, sempre, io fornivo loro solo la tecnica.

L’imprenditore è quello che ha il contenuto.

E cosa significa fornire la tecnica?

 

Riempire il foglio vuoto

Provate a mettervi davanti al foglio vuoto, e poi ditemi se trovate semplice partire da qualche parte e produrre in modo autonomo un documento completo, in grado di ottenere uno scopo prioritario: decidere se investire i vostri soldi.

Perché, se non saprete dimostrare a voi stessi che conviene investire, pensate di saper convincere un finanziatore?

 

Perché lo chiede la banca

Lo dirò chiaro ai consulenti che mi leggono.

Se un imprenditore o un’imprenditrice viene da voi chiedendovi di “buttar giù due numeri perché me li chiede la banca” avete una sola strada da fargli prendere: quella dell’uscita dal vostro studio.

E agli imprenditori o imprenditrici che mi leggono, in modo altrettanto chiaro dirò che se non sapete fare il vostro business plan, in modo completamente autonomo sia per la parte descrittiva, sia per quella quantitativa, non siete semplicemente imprenditori.

 

Siete un cantante senza voce, un pittore senza tela,

uno scultore senza marmo, un violinista senza archetto,

un tennista senza racchetta, un filosofo senza pensiero.

 

Non siete un imprenditore, ma una figura retorica.

Siete, semplicemente, un ossimoro.

 

I calcoli a mente

Un giorno, ero al tavolo di riunione di una media impresa, dove il titolare confrontava i risultati del mio studio con i suoi.

L’imprenditore aveva un quaderno con pochi numeri, che mi ricordava vagamente quelli scritti dal mio babbo tanti anni prima sotto un mandorlo.

Leggeva il mio documento, molto articolato, composto di oltre un centinaio di pagine.

Alla fine, raggiante, mi restituì il lavoro.

“Siamo giunti sostanzialmente alle medesime risposte!” – commentò.

All’epoca, quando ero ancora un consulente alle prime armi, mi sentii per un momento sminuito nel mio lavoro.

“Ma se sapevi già il risultato finale” – chiesi, con un cenno di polemica – “perché mi paghi per fare il lavoro?”

Lui sorrise, soddisfatto.

“Per due ragioni: la prima è che il tuo è molto più completo, per la banca.” – rispose, pacatamente – “La seconda perché volevo vedere se avevo sbagliato, dato che per me è una scelta di vita.”

Fu una bella lezione, di vita, per me.

 

Il Karaoke

Saper scrivere un business plan, e peggio ancora saper scrivere un piano industriale completo di pianificazione strategica, non si improvvisa.

Vi è mai capitato di essere in un posto in cui qualcuno, sprovvisto di tecniche di canto, si improvvisa cantante al karaoke?

Ora, supponete che in dolorante ascolto non ci sia il vostro pur istintivo orecchio, ma quello di un giudice professionista, di un maestro di canto, per esempio.

Recentemente, il Rettore del Collegio per il quale insegno in Università mi ha invitato ad ascoltare una performance canora di un maestro di canto, e posso dirvi che anche i sassi sono in gradi di distinguere un cantante professionista da un improvvisato.

In banca, nei fondi chiusi, negli uffici fidi ci sono analisti che sono professionisti di canto. Quando sentono cantare qualcuno, comprendono immediatamente se hanno davanti un professionista o un dilettante improvvisato.

Mi rivolgo ai consulenti; se siete commercialisti o consulenti in altri settori, datemi retta, non improvvisatevi cantanti al karaoke.
Sarà meglio studiare canto, prima di andare a dare performance in pubblico.

Lo spartito

Ma chi scrive lo spartito?

Domanda invero non peregrina, giacché quello è il cuore del business plan.

Le note sul pentagramma, i prezzi, i costi, i mercati di approvvigionamento, l’organizzazione del personale, il ciclo di produzione, i mercati esteri, le logiche di distribuzione, i modelli giuridici, gli investimenti, i rendimenti e via discorrendo non sono cose che deve decidere il consulente.

Al contrario, io affermo che queste sono competenze dell’imprenditore.

Al consulente, come detto sopra, spetta la specializzazione finale, la stesura definitiva, il perfezionamento su piani finanziari, specie se si parla di internazionalizzazione (ma non solo).

Ma la stesura del business plan nei dieci capitoli, cioè la base di questa materia, deve essere nota a entrambi: a imprenditori e consulenti.

La struttura tecnica, cioè quella numerica in excel e quella descrittiva in word, deve essere a disposizione sia del consulente, sia dell’imprenditore, che devono parlare la medesima lingua.

L’imprenditore, deve essere in grado di produrre, completamente, in modo autonomo, tutto il business plan, perché io sempre questo ho visto fare dai grandi imprenditori, quelli che hanno condotto le proprie aziende su un piano internazionale.

Lo specialista era chiamato per un consulto, un consiglio, una preparazione conclusiva dei documenti; io insegno quei modelli in un corso specialistico di un anno, a Master Bank.

Ma la base, cioè come si scrive un business plan completo di parte numerica e di parte descrittiva, si può apprendere in poco tempo, per la precisione in due giorni di Corso a Winner Plan.

In quei due giorni, io insegno sia ai professionisti, sia agli imprenditori, come si parte dalla base, dal foglio bianco, dal pentagramma; spiego come si scrive lo spartito.

In due giorni, a Winner Plan, condenso la mia esperienza di oltre vent’anni di professione, affinché voi usciate con il vostro business plan completo in mano, in logica taylor made, cioè sartoriale, perché la vostra azienda o quella dei vostri clienti chiede un prodotto artigianale, non standard.

Scritto da voi.

 

A cosa serve il Business Plan?

Guardavo con aria annoiata quel block notes, sul quale mio padre aveva tirato righe col righello e compilato con la sua scrittura precisa, elegante e ordinata, a matita, le tabelle coi numeri del progetto.

Sul tavolo bianco, ogni tanto cadeva una foglia del vecchio mandorlo, spinta dal vento che in collina non mancava quasi mai.
“E a cosa ti serve?” – avevo chiesto.

Mio padre aveva preso la gomma e cancellato alcuni numeri, prima di correggere alcune cose a matita.

Giravo tra le dita il quadrifoglio che avevo appena raccolto dal prato, sotto la sedia di plastica bianca sulla quale mie ero appollaiato, annoiato.

Nell’erba era sdraiata la mia cagna, un pastore maremmano abruzzese, e sembrava osservare non meno annoiata di me.

Mio padre, quando rispose, lo fece a bassa voce, quasi mormorando tra sé.

“A capire cosa vado a fare in Polonia.” – mi disse.

Guardai la mia cagna, per vedere se, almeno lei, avesse capito.

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