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Se vuoi essere un Commercialista di successo, impara a gestire le persone

Oggi è di moda, specialmente per quelli che bazzicano nei mondi della consulenza, affermare di aver tra i propri maestri diretti dei guru, solitamente provenienti da altri continenti, che hanno conosciuto in cartolina oppure attraverso le pagine dei loro libri.

Quando va bene, mostrano orgogliosi sui loro profili Facebook un selfie con il guru di turno, che ha generosamente elargito loro un sorriso in cambio di una vendita di un libro, di un biglietto di conferenza, di un Corso oppure di una onerosa parcella a compenso di partecipazione a un evento (viaggio compreso).

Talora, qualcuno mi chiede quali siano stati i miei libri più importanti, quale il mio autore di riferimento e quali i miei maestri più significativi.

Certo, ho avuto molti maestri nella mia vita, qualche imprenditore, un segretario di partito politico, diversi professori.

Ma se devo essere onesto con me stesso, chi mi ha consentito, quest’anno, di arrivare a insegnare anche nell’antica e prestigiosa Università dove io stesso da giovane ho studiato, il più importante di tutta la mia formazione, è uno solo.

Era un analfabeta.

Ma gli indiani nascono con le piume?

Bigi è stato il mio personale insegnante – una sorta di speciale precettore – da quando avevo sette anni e i miei si trasferirono in campagna, fino ai ventiquattro, quando mi laureai e andai lontano.

Non mi ha mai insegnato con un libro, giacché non sapeva – come ho detto – leggere e scrivere.

In compenso, parlava pochissimo, e non dava confidenza praticamente a nessuno.

Era un plantigrado, quanto di più vicino a un orso possiate immaginare, sia nell’abbigliamento abbondante, rigorosamente completo di panciotto anche a ferragosto, sia nell’aspetto incurato. Veniva nella nostra casa di campagna a far lavori di fatica, fondamentalmente connessi alla tenuta del frutteto e della vigna.

Lo conobbi appena giunto in campagna; una domenica, i miei, che avevano ancora un televisore in bianco e nero, vedevano un film western e Bigi si rivolse in dialetto a mio padre, chiedendo se “quelli là” nascessero davvero con le piume.

Non aveva un orologio, e si regolava con il campanile della chiesa, che suonava a tre chilometri in linea d’aria; non di rado, se fissava un appuntamento, diceva cose tipo: “ci vediamo al tramonto.”
Oggi, quando i colleghi milanesi fissano il lunch alle 12.55, sorrido invariabilmente.

Per lui, il pranzo era un momento sacro.

Una volta, lo scoprii a piangere, da solo, davanti a un enorme grilletto di pastasciutta, nella lavanderia di casa, dove preferiva mangiare in disparte, da buon orso. Non compresi la ragione, fino a che mio padre mi spiegò che piangeva di felicità, per l’abbondanza e la bontà del cibo che mia nonna gli cucinava.

Per uno abituato da decenni a sparare alle cornacchie per poi farle bollire nella sua cascina, dove abitava sperduto tra le zanzare d’estate e le nevi invernali, la cucina di mia nonna – alla quale si riferiva dando rigorosamente del voi – doveva sembrare una sorta di posto stellato.

Dell’orso aveva anche la forza, oltre che la pazienza. Quando, ormai giovanotto, un giorno provai a far una sorta di gara con lui nel zappare la vigna, scoprii che i muscoli da decenni allenati a quei terreni calcarei erano infinitamente più solidi di quelli di chi, ben più giovane, posati i libri, si recava tre volte la settimana in palestra.

Eppure, per qualche strana ragione che non ho mai appurato, con me parlava. Lo faceva bevendo, anche se non l’ho mai visto ubriaco.

Portava sempre due fiaschi da due litri, con sé. Ne fissava uno all’inizio del filare e uno alla fine, ed era capace di andare avanti per ore, dando una golata appena giunto alla fine, per poi spostarlo di filare, e ricominciare.

Certo, io ero arrivato a fare centoventi vasche in piscina, ma non gli andavo nemmeno lontanamente vicino, in quello sport collinare; sarà perché bevevo poco.

Ma, quando bevevamo insieme, era un concerto di filosofia.

Non credo lui abbia mai sentito parlare di nessun pensatore, ma il suo pensiero, quando lo accompagnavo a passo d’uomo con la sua bicicletta carica di albicocche, per le stradine polverose, era quanto di più lucido, sulla natura degli esseri umani, mi sia capitato di sentire.

Per tanti anni non potei ricambiare, fino a quando, quando ormai andavo all’Università, un giorno mi chiese, con enorme imbarazzo, se potessi risolvergli un enorme problema. Si trattava di scrivere un contratto di affitto di un suo terreno ad un vicino, per essere coltivato ad erba medica. Da quell’anno, quando mi inventai consulente e stesi un contratto privato, da lui rigorosamente firmato con la x, mi guardò come un amico colto e prezioso.

Per me, ho sempre avuto ben chiara la differenza tra cultura e intelligenza, e ben sapevo che ciò che mi aveva dato lui in tantissimi anni era ben superiore alle quattro nozioni con le quali io potevo ricambiare.

Sta di fatto che, negli ultimi anni della sua vita concesse a me e a nessun altro di entrare nella sua casa. Mia nonna mi disse che, per quanto a sua conoscenza, in decenni non era mai capitato ad altre persone in sorte.

Non credo di poter descrivere ciò che vidi, poiché non mi credereste, ma il gesto fu per me carico di significato, come se la mia lunga iniziazione fosse finita.

L’ultimo ricordo che ho di lui è attraverso una fotografia, immortalato da un’amica di mia madre che lo fotografò, ormai portato in gita ospite dell’ospizio, appoggiato al bastone sulla spiaggia davanti al mar ligure, suo desiderio di tutta la vita.

Mi dissero che rimase là, gli occhi lucidi, immobile davanti a quella cosa meravigliosa e per lui sorprendente, per ore intere.

Non ho motivo di dubitarne.

Tecnica e anima

Quotidianamente, leggo su internet di sedicenti saggi che dispensano conoscenze, spesso racchiuse in schemi fissi, quadranti, categorie, circoscrivendo le persone, e quindi tutto il creato, entro schemi pre definiti.

Bigi non tenne mai conferenze, per quanto mi è dato di sapere.

Di certo, a me insegnava che le persone sono complesse e semplici allo stesso modo, e in ogni caso non ragionava, mai, per categorie di pensiero. Ogni essere umano, per lui, era uguale eppure diverso, unico.

Ne parlava sempre con rispetto, con un tributo universale all’unicità dell’essere.

Certo, io potrei far accademia, anche qui, e dire le cose che insegno a Master Bank, cioè al Corso specialistico per manager e consulenti che vogliono diventare specialisti dei finanziamenti d’azienda; hanno termini inglesi come ADSCR, DCF analysis, UCFs, e potrei usare equazioni, rigorosamente tradotte in formule excel.

Siete davvero convinti che quelle siano le cose che distinguono un consulente di successo dagli altri?

Direi che quella è la tecnica, ed è fondamentale.

Ci vuole un anno per apprenderla, ma non è sufficiente.

La tecnica non spiega mai l’anima.

Saper leggere la gente

Anni fa, facevo consulenza a un Sindaco di un capoluogo di Provincia.

Le vere motivazioni sulle scelte di bilancio, l’allocazione delle spese, le politiche pubbliche, non venivano fuori nelle sedute di giunta, di consiglio comunale, o nelle riunioni politiche pubbliche.

Se volevo capire veramente quali erano le istanze che muovevano le sue decisioni, i suoi bisogni, dovevo seguire i bisogni di un altro essere; il suo cane, che portava a pisciare lungo il viale, poco prima della mezzanotte.

Capivo molto di più in quella mezz’ora di tragitto notturno, anche se pioveva o nevicava, di intere settimane trascorse in riunioni.

Quando seguivo un imprenditore operante nel settore delle energie rinnovabili, mi trovai più volte sotto il sole a picco, in piena estate, in enormi vasconi di cemento chiamati “bio digestori”, con i raggi che rimbalzavano sul bianco della copertura e rendevano perfino fastidioso parlarci negli abiti appiccicosi di sudore. Una volta, allorché criticò l’assenza del suo direttore di cantiere in quella giornata particolare, di fronte alla mia banale osservazione, replicò quasi con stupore: “ma perché, ferragosto è festa?”

Capivo di più dell’anima imprenditoriale sotto il sole a picco, che nelle riunioni coi soci e i finanziatori.

Anni prima, quando vivevo quotidianamente la politica romana, chiesi per quale ragione le riunioni dovessero essere sistematicamente avviate a sera inoltrata, dopo le cene al ristorante.

A mio parere, era più sensato e pratico andare a cena, coricarsi in ora urbana e piuttosto alzarsi, freschi e riposati, di buon ora al mattino. Un noto politico mi guardò come si guarda l’ultimo degli arrivati (e in effetti, in quel contesto lo ero):

“Ragazzo, andare a dormire alle quattro di notte è epico; alzarsi alle cinque di mattina, è rurale.”

I bisogni

Non ho problemi a rivelare le mie origini rurali.

Molti pensano che un consulente debba sostanzialmente risolvere problemi di un’organizzazione (d’impresa, di ente pubblico, di partito politico, di ente senza scopo di lucro, di associazione di categoria, di banca, di confidi, di università, di ente di ricerca, di organo di comunicazione e via discorrendo).

Ho lavorato come consulente in tutti i citati ambiti, e mi sono convinto che non sia così.
La risposta ai problemi non è mai basata sulla mera tecnica, perché la tecnica affronta forse i problemi dell’organizzazione richiedente, ma mai la loro vera natura ed origine.

 

L’origine delle cose sta nei bisogni degli esseri umani.

 

Quando entrai nell’azienda di un mio ex cliente imprenditore, oggi mio ex allievo del Corso Master Bank e felicemente finanzialista, dopo che mi vennero esposti i bilanci e i problemi dell’azienda, feci una domanda, ex abrupto: “com’è il rapporto con tuo padre?”

Ancora oggi, il mio ex allievo mi darà atto che andai all’origine del problema dopo forse nemmeno venti minuti, sorvolando sui bilanci.

Quando, un paio di mesi or sono, un imprenditore ex allievo in un mio corso, chiese una mia consulenza per l’ipotesi di una nuova start up, e iniziò a raccontarmi delle due aziende che la famiglia aveva creato negli anni, posi da parte i prospetti contabili e i saldi debitori, con fornitori e banche, per chiedergli: “com’è il rapporto con tua sorella?”

Anche in questo caso, dopo che andai alla lavagna a scrivere di pianificazione strategica, l’imprenditore si stupì e mi chiese: “come hai fatto a capirlo in un quarto d’ora?”.

Nei tre esempi storici di cui sopra, ma anche nei due più recenti che ho appena citato, la risposta è sempre una: la formazione di Bigi.

Oggi, io chiamo questa mia conoscenza “people management”, ma se togliamo l’inglese, io l’ho appresa senza libri, all’ombra di una pianta con un cestino pieno di more e fichi (si possono anche mangiare insieme, una bontà).

La gestione della gente

La gestione della gente è molto più interessante e veritiera della gestione dei progetti, perché i progetti sono fatti da persone.

Le persone non possono essere codificate in tre o quattro categorie o schemi, perché, al di fuori dei corsi di formazione e dei libri da bancarella, siamo miliardi.

Non ho mai incontrato nella mia vita due aziende uguali, così come Bigi mi insegnò che non esistevano due persone uguali, nel Paese. E tutto il mondo è paese.

Io finora ho insegnato a leggere i bilanci, ma quello è il livello numero uno.

Esiste un livello secondo, superiore, nel quale si insegna a leggere le persone.

Ne ho accennato lo scorso anno a MasterBANK, ed è risultata la lezione più complessa, anche se era l’unica senza formule e senza excel. Ma comprendo la difficoltà, per chi non abbia avuto la fortuna di studiare per anni con Bigi.

I bilanci non sono il problema dell’azienda, perché non sono la causa, ma l’effetto. E le vere cause non stanno mai nelle banche, nei finanziamenti, nelle vendite, negli acquisti, nell’organizzazione o nella produzione, e nemmeno nel marketing o in qualsiasi altra materia.

 

Le cause sono sempre nelle anime delle persone.

 

Se vuoi far consulenza di alto livello, non basta diventare esperto di bilanci, occorre diventare anche esperto di anime.

 

I due numeri che contano

Ho lavorato nella mia vita con Presidenti della Camera dei Deputati, Sottosegretari di Stato, Rettori di Università, Sindaci di capoluoghi di Provincia, Presidenti di Provincia, Direttori Generali di società pubbliche, Presidenti di fondazioni bancarie, Manager di società di Stato, Amministratori delegati di multinazionali.

Ho anche lavorato con tanti piccoli e micro imprenditori.

Hanno qualcosa di simile tutti questi soggetti?

Nulla.

Hanno qualcosa di diverso tutti questi soggetti?

Nemmeno.

Questa, di difficile comprensione, sarebbe la filosofia di Bigi, mentre portava a mano la bicicletta carica di frutta.

Per questo io sorrido quando leggo del nuovo guru di turno che tenta di schematizzare ad assoluto la sua suddivisione dell’intera umanità, nella sua complessità, in tre, o quattro, oppure otto – e perché no? – in dodici quadranti.

Nemmeno i grandi pensatori, come Hegel, quando hanno tentato di categorizzare, hanno avuto successo; figuriamoci la verità universali che possono insegnare i guru da bancarella.

Non esistono parole magiche, numeri da rivelare, categorie del pensiero, della postura del corpo, della mente, in grado – per gli iniziati che li possiedono in cambio di elargizione di denaro – di raggiungere scopi manipolatori dell’essere umano.

Non si possono rivelare quei numeri o categorie, perché sono tutte stupidaggini.

 

Gli unici numeri che valgono, nella lettura dell’anima,

sono il numero uno e l’infinito.

 

E questa è cosa sulla quale Bigi, in dialetto, tra una fetta di salame e un bicchiere di vino, mi fece riflettere per anni.

L’amaro e il dolce in bocca

Capisco che un articolo tanto strano, così inusitato, apparentemente insignificante, così lontano dalle stereotipate e obsolete regole del copy, possa lasciar l’amaro in bocca a qualche mio lettore, interessato a scoprire le quattro regole universali per farsi finanziare dalle banche o i tre suggerimenti supremi per l’autostrada verso il successo.

Devo decidere, quest’anno, se dedicare un modulo di approfondimento anche alle tematiche accennate a questo articolo, a completamento del Corso Master Bank, e dipenderà anche dai giudizi sinceri dei miei lettori in fondo a questo articolo.

Non mi aspetto grandi apprezzamenti, né li vado cercando, perché questa è la parte più intima del mio sapere di origine contadina.

Quando Bigi era felice, lo vedevi dalle piccole cose.

Un giorno, mio padre mi fece notare una cosa. Dalla mia casa sulla collina alla sua cascina vicino a un laghetto vi era un percorso che attraversava un boschetto, fatto di un sentiero. Mia nonna era solita regalare a Bigi un sacchetto di caramelle.

Potevi sapere che Bigi era passato di lì – mi fece notare mio padre – facendo come nella fiaba di Pollicino. Il sentiero era, se lo percorrevi poco dopo, pieno delle carte delle caramelle, che il mio plantigrado amico sgranocchiava e mangiava interamente prima di arrivare alla sua umile e remota dimora.

Quella – quel dolce in bocca – era per lui la felicità, e ciò che lo muoveva nelle scelte.

Se volete diventare davvero manager o consulenti di successo, la conoscenza della tecnica, pur fondamentale, non basta.

Esiste un altro mondo meno noto, e non meno importante; ditemi se può interessarvi.

Perché ogni donna od ogni uomo con cui per professione verrete in contatto, a qualsiasi livello, anche i più elevati, cerca la propria strada per la felicità.

Se volete scoprire quale sia, seguite il sentiero con le caramelle.

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